1. L’Italia, vittoriosa nella prima guerra mondiale, concluse così il proprio processo di unificazione nazionale, inglobando nel contempo, oltre agli sloveni residenti nelle città e nei centri minori a maggioranza italiana, anche distretti interamente sloveni, situati anche al di fuori del vecchio Litorale austriaco ed estranei allo stesso concetto di Venezia Giulia italiana, come era stato elaborato negli ultimi decenni. Ciò suscitò reazioni opposte fra le diverse componenti nazionali residenti nei territori dapprima occupati e poi annessi: gli italiani infatti accolsero con entusiasmo la nuova situazione, mentre per gli sloveni, che si erano impegnati per l’unità nazionale e si erano già alla fine della guerra dichiarati a favore del nascente stato jugoslavo, l’inglobamento nello stato italiano comportò un grave trauma. Il nuovo assetto del confine nord-adriatico, il cui tracciato era stato fissato sin dal patto di Londra del 1915, sostanzialmente confermato dal Trattato di Rapallo (1920), e che seguiva la linea displuviale tra il mar Nero e l’Adriatico, strappò dal ceppo nazionale, un quarto del popolo sloveno (327.230 unità secondo il censimento austriaco del 1910, 271.305 secondo il censimento italiano del 1921, 290.000 secondo le stime di Carlo Schifffrer ), ma la crescita del numero degli sloveni presenti in Italia non influì sulla situazione di quelli della Slavia veneta (circa 34 mila unità secondo il censimento del 1921) già presenti nel territorio del regno, ritenuti ormai assimilati ed ai quali non venne pertanto riconosciuto alcun diritto nazionale.
2. L’amministrazione italiana, dapprima militare e poi civile, mostrò una notevole impreparazione ad affrontare i delicati problemi nazionali e politici dei territori occupati, dove si riscontravano consistenti insediamenti – in ampi zone maggioritari – di popolazioni slave che aspiravano all’unione con la propria “madrepatria” (nel caso degli sloveni e dei croati della Venezia Giulia, il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni) e che avevano compiuto per lo più la loro acculturazione politica nell’ambito dello stato plurinazionale asburgico. Tale impreparazione, unita al retaggio della guerra appena conclusa – in cui gli slavi erano stati considerati come nemici, strumenti privilegiati dell’oppressione austriaca – provocò da parte delle autorità italiane comportamenti fortemente contraddittori. Da un lato, nel periodo 1918-20, quando il confine italo-jugoslavo non era ancora definito, le autorità di occupazione, influenzate pure dagli elementi nazionalisti locali, usarono volentieri la mano pesante nei confronti degli sloveni che intendevano manifestare la propria volontà di annessione alla Jugoslavia. Furono cosi assunti numerosi provvedimenti restrittivi – sospensione di amministrazioni locali, scioglimento di consigli nazionali, limitazioni della libertà di associazione, condanne dei tribunali militari, detenzione di militari ex austriaci, internamento ed espulsione, specie di intellettuali – che penalizzarono la ripresa della vita culturale e politica della componente slovena. Al tempo stesso le autorità di occupazione favorirono le manifestazioni di italianità anche per fornire alle trattative per la definizione del nuovo confine un quadro politicamente italiano delle regioni.
D’altra parte, i governi liberali italiani, pur all’interno di un disegno generale di nazionalizzazione dei territori annessi, furono generosi di promesse nei confronti della minoranza slovena e consentirono il rinnovo delle sue rappresentanze nazionali, il riavvio dell’istruzione scolastica in lingua slovena e la ripresa di attività delle organizzazioni indispensabili per lo sviluppo del gruppo nazionale sloveno. Anche il progetto – sostenuto da esponenti politici giuliani e trentini, e che i governi pre-fascisti presero in seria considerazione – di conservare ai territori annessi forme di autonomia non lontane da quelle già godute in epoca asburgica, avrebbe favorito un migliore rapporto fra le componenti minoritarie e lo stato. Inoltre, il Parlamento italiano formulò voti in favore di una politica di tutela della minoranza slava.
3. L’irremovibilità delle delegazioni italiane e jugoslava alla conferenza di Parigi sul problema della definizione del nuovo confine ritardò la stabilizzazione politica dei territori sottoposti al regime di occupazione, acuendo i contrasti nazionali. Il formarsi del mito della “vittoria mutilata” e l’impresa dannunziana di Fiume, pur non riguardando direttamente l’area abitata da sloveni, accesero ulteriormente gli animi e costituirono il terreno ideale per l’affermarsi precoce del “fascismo di frontiera”, che si erse a tutore degli interessi italiani sul confine orientale e coagulò gran parte delle locali forze nazionaliste italiane attorno all’asse dell’antislavismo combinato con l’antibolscevismo. Il movimento socialista vedeva infatti una larga adesione degli sloveni – fiduciosi nei suoi principi di giustizia sociale e di eguaglianza nazionale – che contribuirono a far prevalere al suo interno le componenti rivoluzionarie: anche da ciò in seguito derivò la coniazione da parte fascista della categoria dello “slavocomunista” che alimentò ulteriormente l’estremismo nazionalista. Nel luglio del 1920, l’incendio del Narodni Dom, la sede delle organizzazioni slovene, di Trieste – che trasse pretesto dagli incidenti verificatisi a Spalato e che provocarono vittime sia italiane che jugoslave – non fu così che il primo, clamoroso atto di una lunga sequela di violenze: nella Venezia Giulia come altrove in Italia la crisi dello stato liberale offrì infatti campo libero all’aggressività fascista, che si giovò di aperte collusioni con l’apparato dello stato, qui ancor più forti che altrove, come conseguenza della diffusa ostilità antislava. Le “nuove province” d’Italia nascevano così con pesanti contraddizioni tra principio di nazionalità, ragion di stato e politica di potenza, che minavano alla base la possibilità della civile convivenza tra gruppi nazionali diversi.
4. Il trattato di Rapallo, sottoscritto nel novembre del 1920 tra il regno d’Italia e quello dei Serbi, Croati e Sloveni, accolse in pieno le esigenze italiane e amputò un quarto abbondante dell’area considerata dagli sloveni come proprio “territorio etnico”. Tale esito era dovuto alla favorevole posizione negoziale dell’Italia che usciva dalla Grande Guerra come vincitrice e riconfermata nel suo status di “grande potenza”. Il trattato, che non vincolò l’Italia al rispetto delle minoranze slovena e croata, garantiva invece la tutela della minoranza italiana in Dalmazia: ciò nonostante si verificò un trasferimento di alcune migliaia di italiani da questa regione al Regno d’Italia.
Clausole riguardanti la tutela delle minoranze nella Venezia Giulia non vennero incluse nemmeno nei successivi trattati del 1924 e del 1937 stipulati per avviare da parte jugoslava buoni rapporti con la potente vicina. Nelle intenzioni dei suoi negoziatori, italiani e jugoslavi, il trattato di Rapallo avrebbe dovuto porre le premesse per una reciproca amicizia e collaborazione fra i due stati. Così invece non fu e ben presto la politica estera del fascismo si incamminò lungo la via dell’egemonia adriatica e del revisionismo, assumendo crescenti connotati anti-jugoslavi; tale orientamento fu sostenuto anche da gruppi capitalistici, non solo triestini, interessati ad espandersi nei Balcani e nel bacino danubiano e trovò non pochi consensi nella popolazione italiana della Venezia Giulia. Presero corpo anche progetti di distruzione della compagine jugoslava, solo momentaneamente accantonati con gli accordi Ciano – Stojadinović del 1937, che sembrarono per breve tempo preludere all’ingresso della Jugoslavia nell’orbita italiana. Lo scoppio della guerra mondiale avrebbe concretizzato tali progetti in un preciso disegno di aggressione.
5. Nonostante la difficile situazione esistente nella Venezia Giulia, la politica degli esponenti sloveni e croati – tra cui i loro rappresentanti al parlamento – fu improntata al lealismo nei confronti dello stato italiano, anche dopo l’avvento del fascismo; tra l’altro, essi non aderirono all’opposizione legale quando nel 1924 essa si ritirò sull’Avventino in segno di protesta contro il delitto Matteotti. Malgrado ciò, la loro battaglia parlamentare per la tutela dei diritti nazionali degli sloveni e dei croati, condotta in comune con i deputati della minoranza tedesca dell’Alto Adige, non diede alcun risultato, anzi, il regime fascista si impegnò a fondo, anche per via legislativa nella snazionalizzazione di tutte le minoranze nazionali. Così nella Venezia Giulia vennero progressivamente eliminate tutte le istituzioni nazionali slovene e croate rinnovate dopo la prima guerra mondiale. Le scuole furono tutte italianizzate, gli insegnanti in gran parte pensionati, trasferiti all’interno del regno, licenziati o costretti ad emigrare, posti limiti all’accesso degli sloveni al pubblico impiego, soppresse centinaia di associazioni culturali, sportive, giovanili, sociali, professionali, decine di cooperative economiche e istituzioni finanziarie, case popolari, biblioteche, ecc. Partiti politici e stampa periodica vennero posti fuori legge, eliminata fu la possibilità di qualsiasi rappresentanza delle minoranze nazionali, proibito l’uso pubblico della lingua. Le minoranze slovena e croata cessarono così di esistere come forza politica ed i loro rappresentanti fuoriusciti continuarono ad operare tramite il Congresso delle nazionalità europee, sotto la presidenza di Josip Vilfan, cooperando così all’impostazione di una politica generale europea per la soluzione delle problematiche minoritarie.
6. L’impeto snazionalizzatore del fascismo andò però anche oltre la persecuzione politica, nell’intento di arrivare alla “bonifica etnica” della Venezia Giulia. Così, l’italianizzazione dei toponimi sloveni o l’uso esclusivo della loro forma italiana, dei cognomi e dei nomi personali si accompagnò alla promozione dell’emigrazione, all’impiego di elementi sloveni nell’interno del paese e nelle colonie, all’avvio di progetti di colonizzazione agricola interna da parte di elementi italiani, ai provvedimenti economici mirati a semplificare drasticamente la struttura della società slovena, eliminandone gli strati superiori in modo da renderla conforme allo stereotipo dello slavo incolto e campagnolo, ritenuto facilmente assimilabile dalla “superiore” civiltà italiana. A tali disegni di più ampio respiro si accompagnò una politica repressiva assai brutale. Vero è che nella medesima epoca la maggior parte degli stati europei mostrava scarso rispetto per i diritti delle minoranze etniche presenti sul loro territorio, quando addirittura non cercava in vari modi di conculcarli, ma ciò non toglie che la politica di “bonifica etnica” avviata dal fascismo sia risultata particolarmente pesante, anche perché l’intolleranza nazionale, talora venata di vero e proprio razzismo, si accompagnava alle misure totalitarie del regime.
7. L’azione snazionalizzatrice fascista si diresse anche contro la Chiesa cattolica, dal momento che fra gli sloveni – dispersi e in esilio quadri dirigenti e intellettuali – fu il clero ad assumere il ruolo di punto di riferimento per la coscienza nazionale, in continuità con la funzione già svolta in epoca asburgica. I provvedimenti repressivi colpirono direttamente il basso clero, oggetto di aggressioni e provvedimenti di polizia, ma forti pressioni vennero condotte anche verso la gerarchia ecclesiastica di Trieste e Gorizia, in cui l’alto clero si era nei decenni precedenti guadagnato da parte dei nazionalisti italiani una solida fama di austriacantismo e filo-slavismo. Tappe fondamentali dell’addomesticamento della Chiesa di confine – il cui esito va inserito nell’ambito dei nuovi rapporti fra Stato e Chiesa avviati dal fascismo – furono la rimozione dell’arcivescovo di Gorizia Francesco Borgia Sedej e del vescovo di Trieste Luigi Fogar. I loro successori applicarono le direttive “romanizzatici” del Vaticano, in conformità a quanto avveniva anche nelle altre regioni italiane ove esistevano comunità “alloglotte”, come pure nelle realtà europee caratterizzate dalla presenza di fenomeni simili: tali direttive infatti miravano ad offrire il minimo di occasioni di ingerenza in materia ecclesiastica ai governi, totalitari e non, e a compattare i fedeli attorno a Roma, in difesa dei principi cattolici che la Santa Sede riteneva minacciati dalla civiltà moderna.
Nella Venezia Giulia questi provvedimenti comportavano in via di principio l’abolizione dell’uso della lingua slovena nella liturgia e nella catechesi; essa tuttavia fu mantenuta in forma clandestina soprattutto in ambito rurale, ad opera dei sacerdoti organizzati nella corrente cristiano sociale. Tale situazione provocò gravi tensioni tra i fedeli ed i sacerdoti slavi da un lato, ed i nuovi vescovi dall’altro, e le difficoltà furono acuite dal diverso modo d’intendere il ruolo del clero, cui gli sloveni attribuivano una funzione prioritaria nella difesa dell’identità nazionale, che appariva invece agli ordinari diocesani italiani frutto di una deformazione nazionalista. Gli sloveni e i croati si formarono così la convinzione che la gerarchia ecclesiastica stesse di fatto collaborando con il regime ad un’opera di italianizzazione che investiva ogni campo della vita sociale.
8. Gli anni Venti e Trenta furono per i territori annessi un periodo di crisi economica, solo tardivamente interrotta dalla politica autarchica: alle difficoltà generali segnate dalle economie europee fra le due guerre si sommarono infatti gli effetti negativi della ristrutturazione e frantumazione dell’area danubiano-balcanica, vitale per le fortune economiche delle terre giuliane. I provvedimenti compensativi assunti dallo stato italiano non riuscirono ad invertire la tendenza negativa del periodo, dal momento che le sue cause profonde – vale a dire, la rottura dei legami con il retroterra – sfuggivano alla capacità di intervento sia delle forze locali che della stessa Italia. Ciò dimostrò l’assurdità delle teorie imperialiste, sostemute dai nazionalisti italiani, che speravano di fare di Trieste e della Venezia Giulia la base per la penetrazione italiana nell’Europa centro-orientale e balcanica, ma procurò anche blocco delle prospettive di sviluppo e, spesso, riduzione del tenore di vita, specie negli strati inferiori della società, nei quali più numerosi erano gli sloveni.
Difficoltà economiche e pesantezza del clima politico favorirono fra le due guerre un robusto flusso migratorio dalla Venezia Giulia: le fonti non ci consentono di quantificare con precisione l’apporto sloveno a tale fenomeno, che coinvolse anche elementi italiani, ma certo esso fu cospicuo, nell’ordine presumibile delle decine di migliaia di unità. Secondo stime jugoslave emigrarono complessivamente 105.000 sloveni e croati; e se nei casi di emigrazione transoceanica è più difficile tracciare un confine fra motivazioni economiche e politiche, nel caso degli espatri in Jugoslavia, che coinvolsero soprattutto giovani ed intellettuali, il collegamento diretto con le persecuzioni politiche e nazionali del fascismo è ben evidente.
9. Ciò che infatti il fascismo cercò di realizzare nella Venezia Giulia fu un vero e proprio programma di distruzione integrale dell’identità nazionale slovena e croata. I risultati ottenuti furono però alquanto modesti, non per mancanza di volontà, ma per quella carenza di risorse che, in questo come in altri campi, rendeva velleitarie le aspirazioni totalitarie del regime. La politica snazionalizzatrice riuscì infatti a decimare la presenza slovena a Trieste e Gorizia, a disperdere largamente gli intellettuali e i ceti borghesi ed a proletarizzare la popolazione rurale, che però, nonostante tutto, rimase compattamente insediata sulla propria terra.
Il risultato più duraturo raggiunto dalla politica fascista fu però quello di consolidare, agli occhi degli sloveni, l’equivalenza fra Italia e fascismo e di condurre la maggior parte degli sloveni (vi furono infatti alcune frange che aderirono al fascismo) al rifiuto di quasi tutto ciò che appariva italiano. Analogo atteggiamento di ostilità fu assunto anche dagli sloveni in Jugoslavia, anche se, alla metà degli anni Trenta, l’ideologia corporativa del fascismo attirò alcuni ambienti politici cattolici. Un certo interesse per la letteratura italiana venne manifestato da parte slovena specialmente sul piano della traduzione e della promozione di opere di autori italiani, mentre assai limitata fu l’attenzione degli italiani verso la letteratura slovena, anche se vi furono alcune iniziative, specie nel campo delle traduzioni. Naturalmente, a livello di rapporti personali e di vicinato, come pure in campo culturale ed artistico, continuarono a sussistere ambiti in cui si avevano convivenza e collaborazione, e ciò avrebbe mantenuto preziosi germi che l’antifascismo e l’aspirazione alla democrazia avrebbero sviluppato, ma in linea generale il solco fra i due gruppi nazionali si approfondì e nei territori giuliani si svilupparono varie forme di resistenza contro l’oppressione fascista. In particolare la gioventù slovena di orientamento nazionalista, raccolta nell’organizzazione TIGR, collegata anche ai servizi jugoslavi e dalla vigilia della guerra anche a quelli britannici, decise di reagire alla violenza con la violenza sviluppando azioni dimostrative ed atti di terrorismo che provocarono repressioni durissime. Di fronte alla durezza della repressione fascista le organizzazioni clandestine slovene assieme a quella dei fuoriusciti in Jugoslavia decisero verso la metà degli anni Trenta di abbandonare le rivendicazioni di autonomia culturale nell’ambito dello stato italiano per porsi invece come obiettivo il distacco dall’Italia dei territori considerati etnicamente sloveni e croati. Come risposta a tale attività di resistenza il Tribunale speciale per la difesa dello stato comminò molte condanne a pene detentive e 14 condanne capitali, 10 delle quali eseguite.
10. Da parte sua, il partito comunista d’Italia maturò lentamente il riconoscimento come alleato del movimento irredentista sloveno, a lungo considerato un fenomeno borghese: la svolta si ebbe solo negli anni Trenta, sotto l’influenza dell’Internazionale, che per dare impulso alla lotta contro nazismo e fascismo indicava il collegamento con le forze nazional-rivoluzionarie per la costituzione dei fronti popolari. Fin dal 1926 il PCd’I riconobbe agli sloveni ed ai croati residenti entro i confini d’Italia il diritto all’autodeterminazione ed alla separazione dallo stato italiano, fermo restando che il criterio dell’autodecisione doveva valere anche per gli italiani. Nel 1934 poi il PCd’I sottoscrisse assieme ai partiti comunisti della Jugoslavia e dell’Austria una apposita dichiarazione sulla soluzione della questione nazionale slovena, impegnandosi altresì in favore dell’unificazione del popolo sloveno entro uno stato proprio.
L’interpretazione da dare a tali risoluzioni sarebbe risultata particolarmente controversa durante la seconda guerra mondiale, quando il movimento di liberazione sloveno si trovò nella condizione di attuare nella prassi il proprio programma di unione nazionale. Ad ogni modo, il patto d’azione stipulato nel 1936 fra il PCd’I ed il movimento rivoluzionario nazionale degli sloveni e dei croati avviò la formazione di un ampio fronte antifascista, mentre nella Venezia Giulia debole rimase la consistenza dell’antifascismo italiano d’impronta liberale e democratica. Va comunque ricordata la collaborazione che si sviluppò alla fine degli anni Venti fra il movimento nazionale sloveno clandestino e le forze antifasciste democratiche italiane in esilio (e specialmente con il movimento Giustizia e Libertà), nel cui ambito la parte slovena si impegnò ad alimentare l’attività antifascista in tutta Italia, mentre da parte italiana agli sloveni ed ai croati venne riconosciuto il diritto all’autonomia e, in alcuni casi, alla revisione dei confini. Tale collaborazione si interruppe quando tra gli sloveni prevalse la linea secessionista.